Molestie e il… “Non si può dire più niente”

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“Si può molestare senza essere molestatori.”

Ad affrontare un argomento così controverso e complesso è Irene Facheris, psicologa esperta di gender, nel suo libro Parità in pillole. Per comprendere e provare a parlare delle molestie, occorre fare un passo indietro e introdurre due concetti chiave: l’intenzione e l’effetto prodotto.

  1. L’intenzione, secondo Treccani, è ciò che ci si propone di raggiungere e a cui tende l’azione e il desiderio.
  2. L’effetto prodotto non è altro che il risultato, la conseguenza, dell’azione subita e che si manifesta a livello fisico e/o emotivo.

Perciò quando parliamo di molestie, è bene sapere che ci può essere, da parte di chi compie l’azione, intenzione o meno di molestare. E la persona che la subisce può sentirsi molestata oppure no.

La dottoressa Facheris mostra così questa tabella “a doppia entrata”:

schema molestie

Quella migliore, che nella tabella troviamo in basso a destra, rappresenta fortunatamente la maggior parte dei casi: c’è un complimento senza malizia, a cui si risponde un sincero grazie.

La soluzione peggiore che si possa presentare è raffigurata nel quadrante in alto a sinistra, dove l’intenzionalità di qualcuno colpisce una persona, che a sua volta si sente molestata. Ne è un esempio il catcalling, la classica ‘molestia sessuale, prevalentemente verbale, che avviene in strada’.

Quando gli uomini fischiano per strada, scrive Giulia Blasi, scrittrice, conduttrice radiofonica e giornalista italiana, parlando del bullismo nel suo libro Rivoluzione Z: “c’entra l’idea che una donna sola sia terreno pubblico, c’entra l’ebbrezza di esercitare un potere su una sconosciuta, specialmente se giovane.”

I fischi, gli applausi, il suono del clacson, le battute sull’abbigliamento, i commenti sull’aspetto fisico, gli inseguimenti a piedi o con la macchina… non sono innocui, ma producono un effetto, un effetto spiacevole.

“Sono una donna che vive in Italia, per strada me ne hanno dette di tutti i colori, dal «Ciao bella» al «Quanto prendi?». Ogni volta ci sto male, ogni volta mi sento sporca, in colpa, piena di vergogna, come se avessi fatto qualcosa per meritarmelo. È tremendo e so che moltissime donne possono capirmi.”

Questo passaggio della dottoressa Facheris è illuminante per quanto riguarda un fenomeno tanto complesso quanto drammatico: la colpevolizzazione della vittima. E qui il concetto di “colpa” ha il duplice aspetto: incolparsi e incolpare.

La vittima, inevitabilmente, è in questo caso una donna, Irene Facheris; eppure, si sente in colpa, sporca, come se qualcosa di sbagliato lo avesse fatto lei. E perciò una donna molestata finisce con il domandarsi: «Lo avrò guardato per sbaglio?» «Ho la gonna troppo corta?» «Forse ho sbagliato a mettere il rossetto…»

La colpevolizzazione della vittima accade non solo nella molestia verbale, ma anche in quella fisica, negli stupri. C’è la tendenza a voler indagare se la vittima (in genere una donna) sia in qualche modo colpevole, o perlomeno responsabile della violenza subita.

Ci si concentra su cosa possa aver fatto la vittima per agevolare il reato anziché su cosa sia saltato in mente a chi lo ha commesso. Ti insinuano il dubbio che tu stia leggendo la realtà in maniera errata, che quello che tu chiami stupro altro non è che una normale reazione a quelli che sono stati i tuoi comportamenti. Per dirla in altre parole, te la sei cercata. […] Non ne faccio una questione femminista, ne faccio una questione umana. […] Cosa impedisce alle persone di avere come prima reazione di pancia un immediato «Mi dispiace?» scrive ancora Facheris.

Cosa accade quando decidi di denunciare? Accade che cominciano a fare il terzo grado a te.

Se è stato tuo marito, sei sicura si sia trattato di stupro? Non è che magari stavate giocando e adesso ti vergogni a dire di aver fatto la parte di quella che non voleva perché la cosa ti eccitava?

Se è stato il ragazzo con cui sei uscita, non è che prima gli hai fatto intendere che sarebbe potuto accadere qualcosa?

Se è stato uno sconosciuto, tu come eri vestita? Hai fatto qualcosa per provocarlo? Ma dove stavi andando? Ma cosa ci facevi da sola in giro a quell’ora?”

Troppo spesso i riflettori vengono puntati sulla vittima: ci si chiede se questa abbia in qualche modo “stuzzicato” il suo aguzzino. In poche parole: non è che se l’è cercata? È stato fatto molto per sensibilizzare l’opinione pubblica del contrario – ne è un esempio la mostra “Com’eri vestita?”, che narra le storie di violenza sessuale attraverso i vestiti che riproducono fedelmente quelli indossati durante lo stupro – ma non è abbastanza.

Il quadrante su cui vogliamo anche soffermarci con questo articolo è quello in alto a destra: non c’è intenzione di molestare, ma chi subisce si sente molestato. Negli ultimi anni, il tema è stato ampiamente discusso perché la maggior parte delle persone fatica a riconoscere una molestia, scambiandola per complimenti, apprezzamenti, “sana virilità”.

Tuttavia, cosa che non accadeva in passato, ora si è cominciato a chiedere cosa provano le persone (generalmente donne) che ricevono quei “complimenti”. E qui ci viene in aiuto la distinzione tra intenzionalità e effetto prodotto di cui parlavamo. Se una persona riceve degli “apprezzamenti” (le virgolette sono d’obbligo) non richiesti, che provocano paura, senso di imbarazzo, disagio o fastidio, e questa si sente molestata, si tratta di molestia.

Ma adesso non si possono più fare nemmeno i complimenti?

Siamo nell’epoca del “non si può dire più nulla”. Recente è il caso, che ha fatto discutere, della ragazza ventottenne morsa alla natica da un cane. La ragazza si è recata di notte al pronto soccorso e lì un medico di circa settant’anni ha lasciato questo commento: “cane buongustaio”, inserendo poi nel referto: “Riferito morso di cane buongustaio natica dx”. E ancora: “Facciamo un bel regalo anche al medico di base”, riferendosi al collega che le avrebbe tolto i punti in un secondo momento, e una volta visti faccia a faccia per la prescrizione medica: “Non ti ho riconosciuta, ho visto solo l’altra faccia”. La donna ha successivamente presentato un reclamo all’Urp e, come riporta il Corriere della Sera, ha detto: “L’episodio non mi ha sconvolto la vita, ma infastidita sì. Mi chiedo come avrebbe potuto reagire a questa situazione una ragazzina di 15 anni di notte. Il medico dovrebbe accoglierti e aiutarti in un momento di difficoltà. Lui era in una posizione di potere e se n’è approfittato”. Il medico è stato sospeso.

Sul web, si sono create due fazioni contrapposte: da un lato, chi si è sentito vicino alla giovane donna, condannando esplicitamente il medico, chi – invece – ha visto in questa vicenda “l’ennesima dimostrazione di un politically correct rigoroso”, sul web sono comparse frasi quali:

“Li incriminiamo di sessismo e li sospendiamo a causa di una semplice battuta, che avrebbe potuto farci sorridere, o almeno un tempo lo avrebbe fatto, quando eravamo meno scemi, oggi invece ci induce a denunciare la condotta di colui che si è macchiato del reato di ironia.

“… fra l‘altro anziano e richiamato in servizio per far fronte all‘emergenza continua dei nostri ospedali, che ha dovuto operare in loco e che ha creduto opportuno, magari per sdrammatizzare tensione e fatica accumulate nel turno di guardia, scherzarci su, scrivendo sul referto di dimissione della paziente ‘Riferito morso di cane buongustaio natica dx’. Sul quel “buongustaio” diventato di pubblico dominio dopo la denuncia della ragazza si è innescata una polemica feroce, con accuse di sessismo, in nome ovviamente del pensiero unico dominante e per conto del politically correct rigoroso. […] E farsela, una risata, ogni tanto, no eh?”

 Giulia Blasi prosegue poi sul suo libro: “Come per tutte le violenze, il problema non sono le vittime, ma i bulli e le persone che si rendono complici del loro comportamento, perché tanto «cosa vuoi che sia» e «ci stavamo solo divertendo». Regola numero uno: se non si divertono tutti, non si diverte nessuno.”

 Se non si divertono tutti, non si diverte nessuno.

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