Pagine bianche

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Decapato.

La prima volta che mi sono imbattuta in questo termine, pensai che fosse un sinonimo di decapitato; poi, un costruttore mi spiegò che, in quel periodo, andava molto di moda per il parquet e che l’effetto finale di quel trattamento era un legno sbiancato, con le venature in risalto di colore rosato. Lo adorai.

«Che imbecil** che sei!»

Quando andai a scegliere la mia cucina e mi dissero che potevo averla frassino decapato bianco, capii che non avrei trovato niente che mi piacesse così tanto. La mia prima cucina, tutta mia, organizzata come piaceva a me, stile country old style, fantastica per una casa di campagna…

«Di’: lo fai apposta, non è vero?»

Quando andai a scegliere il pavimento per il mio nuovo salone, mi spiegarono che, oltre al parquet, potevo optare per il grès porcellanato: più resistente, più facile da pulire, praticamente anti graffio e anti macchia e avrei avuto come effetto finale sempre quello del legno decapato. Osservai le lunghe mattonelle di ottanta centimetri per così tanto che mi fecero male gli occhi: avevano le venature dello stesso rosa della cucina e a guardarle vicine, sembrava che le ante continuassero sul pavimento. Identici e bellissimi insieme, perfetti per una nuova casa su cui costruire il proprio futuro. 

«Tu e le tue idee del ca***! Perché è colpa tua se abbiamo comprato questa me*** di casa!»

L’unico difetto, che allora classificai come irrilevante, fu che mattonelle con uno spessore di centoventi millimetri, secondo il piastrellista, avrebbero creato fughe un po’ alte. Ne ebbi la prova il giorno che passai l’aspirapolvere sul mio nuovo pavimento e le spazzole non la smettevano di impuntarsi sulle fughe.

Rimaneva comunque bellissimo, quindi presi semplicemente la spazzola più leggera dell’aspirapolvere. Nulla avrebbe cambiato il mio voto per quel colore meraviglioso, simile alle nuvole del paradiso, neanche quando un piccolo capello o un sassolino del giardino si notavano da metri di distanza in tutto quel bianco panna. Non avrei mai pensato che una sera avrei odiato quelle mattonelle e quelle stramaledette fughe, mentre tagliano il mio zigomo per il troppo tempo passato con il viso a terra, immobile. 

 «Lo vedi cosa mi fai fare? Se non mi facessi sempre innervosire, io non sarei costretto a… »

Le sue parole si perdono nella mia testa, tanto sono senza significato. Un tempo erano lance che si conficcavano nel cuore, ora non più. Ho smesso di ascoltare, ho smesso di cercare di capire, ho finito di considerarlo importante. 

Continua a camminare a grandi falcate sopra il pavimento che io ho amato, nella cucina che mi ha fatto sentire realizzata, per aver scelto qualcosa di meraviglioso; io, lui non c’era, non gli importava, avremmo potuto comprare i mobili alla discarica e per lui sarebbe stato lo stesso. Resto immobile e apro un occhio solo, quando lo sento alle mie spalle. Devo solo aspettare che si sieda sul divano: due minuti seduto, il tempo di poggiare la testa e crollerà addormentato. Oramai conosco la prassi, ma stavolta non tirerò un sospiro di sollievo. 

«Siete tutti degli ingrati! Str**** che non siete altro, tutti alleati contro di me, tutti a confabulare contro di me! Io che mi spacco la schiena tutto il giorno per farvi mangiare, per farvi giocare alla famiglia felice… Dovete andare via, io non vi sopporto più!»

Finalmente sento le molle del divano scricchiolare, si sta sedendo. Non si è preoccupato una sola volta se sono morta, svenuta o sto semplicemente fingendo. Se non altro così non mi ha colpita più.

Con il mezzo occhio che tengo aperto, vedo una mano abbronzata, nonostante siamo a febbraio, far capolino dall’angolo della parete del corridoio. È mio figlio, il mio ragazzo coraggioso, che scalpita per venirmi a soccorrere: non deve, stavolta ho tutto sotto controllo; il dolore passerà, com’è passata la paura e la delusione. I suoi bellissimi occhi, giovani ma seri, così uguali a quelli di mio fratello, mi chiedono in silenzio che cosa deve fare.

Dovete rimanere nascosti, non farvi trovare sul suo cammino, ecco che cosa dovete fare.

Non posso parlare, ma, sicura che lui non mi veda, perché seduto sul divano, alzo un dito della mano da terra e gli faccio cenno di attendere in camera, al sicuro, finché tutto sarà finito e tutto potrà cominciare. Il mio tesoro si ritira e so per certo che nell’altra mano, quella nascosta dietro l’angolo, stringe la manina della piccola, perché non pianga, non faccia rumore, non attiri l’attenzione su di loro. 

Richiudo gli occhi, quasi non respiro.

Ieri notte abbiamo preparato tutto quello che abbiamo potuto, pensando che forse un giorno… Invece quel giorno è già ora.

Basta aspettare che un miracolo ci salvi!

Sono sempre stata una donna forte, convinta che la mia intelligenza mi avrebbe portata lontano e invece mi sono lasciata schiacciare, sopraffare dal senso di colpa, annullare da un amore che ora so essere a senso unico. Quanti anni persi a sperare che, parlando, cercando di capire, ragionando insieme, forse lui si sarebbe lasciato… non so, aiutare?

Parole cadute in un buco nero, visto che la sera dopo ritornava a casa di nuovo arrabbiato con il mondo, di nuovo su di giri, di nuovo un estraneo. 

Sono una donna coraggiosa, ho le spalle robuste e il pelo sullo stomaco. Per questo ce la farò, i ragazzi saranno con me, il resto lo ricostruirò mattone su mattone.

Niente sarà peggio di questo supplizio. 

Non gli perdonerò mai di aver fatto sentire ai miei figli il peso della cattiveria del mondo, ma la cancellerò dalla loro memoria, farò vedere loro che la vita può essere migliore di così, molto migliore. 

Sento russare: è crollato.

Lentamente apro gli occhi, mi alzo senza fare rumore. Sento tutte le ossa del mio corpo scricchiolare forte e lo fisso, per paura che mi abbia sentito. Vorrei rimanere lì ad imprimere il suo viso nella mente, ma quell’uomo che dorme scomposto, con le gambe che ciondolano dal bracciolo del divano, non è più mio marito, non è più l’uomo che ho sposato, non ha più il mio rispetto, non lo avrà mai più, così come non gli permetterò mai più di avere voce in capitolo sulla mia felicità, sulla serenità e sulla sicurezza dei miei figli.

Mi volto e mi dirigo verso la zona notte. Addio mia bella cucina, addio mio bel pavimento, un giorno forse potrò godere ancora di qualcosa che vi somigli, oggi avrò solo la pace, me la farò bastare.

Come giro l’angolo, il mio ometto con gli occhi sgranati e la mia cucciolina con la bocca talmente stretta per trattenere le lacrime, sono lì, in un abbraccio strettissimo. Li spingo verso la loro camera e chiudo la porta a chiave.

«Le valigie?» sussurro, mettendo una mano su ognuna delle loro fragili spalle. Sono di ghiaccio.

«Sotto il letto, pronte!» mi risponde, con la voce tesa, il mio angelo di tredici anni.

«Prendiamole, svelti! Cercate di non fare rumore…» li sprono, svuotando la mente dal dolore per ciò che stiamo facendo, per ciò che lui ci sta costringendo a sopportare. Sono veloci e silenziosi, le orecchie tese, il cuore così gonfio che lo sento lamentarsi per lo strazio che provano, ma le bocche sono cucite. Facciamo scivolare piano la zanzariera della porta finestra, usciamo in giardino, corriamo alla macchina.

«Mamma, gli animali?» mi chiede in preda al panico la mia bimba. Non ci avevo pensato, ma per loro e per me, sono parte della famiglia, non possiamo lasciarli con lui. Vedo mio figlio correre veloce, agguantare in un balzo un micetto, che se ne stava sdraiato a dormire tra l’erba; chiamo con un fischio leggero il cane, che arriva di corsa e fortunatamente, visto che è il richiamo dell’ora delle pappe, arriva anche l’altro micetto.

«Tenete i gatti in braccio, il cane dietro con voi!» ordino forse un po’ brusca, perché li vedo salire di corsa, l’adrenalina a farci sudare, nonostante il freddo.

«E se si sveglia quando accendi il motore?» mi chiede allarmato mio figlio, dal sedile posteriore.

«Non si sveglierà, non sarà comunque in grado di realizzare in tempo cosa sta succedendo!» lo consolo e cerco di convincermene anch’io.

Parto, faccio manovra in due secondi e supero il cancello del giardino. Siamo in strada, tutti in apnea, tutti in un drammatico silenzio. Facciamo un chilometro, due, tre. Nessuna macchina che ci segue. Arriviamo in città, ci mescoliamo nel poco traffico della sera, superiamo una volante della polizia, ferma con l’autovelox sul ciglio della strada. Butto fuori l’aria dai polmoni. Nessuno alle nostre spalle. Una mano, ancora gelata, si posa sulla mia spalla e quasi sobbalzo. «Mamma?» «Sì tesoro, dimmi» rispondo, rimanendo concentrata sulla strada. «Ti sanguina lo zigomo…» mi informa con dolcezza mio figlio, oramai l’uomo di casa.

Passo veloce le dita sul viso e cancello le poche gocce dalla guancia.

Ecco, ora non c’è più nulla che possa riportarci indietro in quell’inferno, ora siamo fuori.

Sei mesi dopo

«Ma io non ci posso credere! Mamma, sono le sette! È tardissimo!» La sua voce squillante mi riempie il cervello e sussulto. Un decimo di secondo e torno alla realtà.

«Come le sette? E dove è finita la sveglia delle sei e mezza?» rispondo ancora intontita dal sonno. Da quando siamo qui, dormo come un sasso. «L’hai stoppata ancora prima che iniziasse a suonare!» ride mio figlio, già mezzo nudo, senza pigiama, già stranamente lavato dalla doccia. «Alzati dormigliona, che il cappuccino è già sul tavolo. Alla pulce penso io, sennò non siamo a scuola neanche fra due anni!” «Guarda che io mi so vestire da sola, cosa credi, sono grande!» risponde la pulce, piccata sul vivo. «Sì tesoro, lo sappiamo, ma così faremo più velocemente. Vuoi?» la supplico, con il labbro inferiore così sporto che la faccio ridere. «Mamma, non sai recitare, non ci provare!» mi risponde, insinuando però la manina in quella del fratello e avviandosi verso la sua camera.

Dieci minuti e partiamo dal nostro nuovo appartamento, in una nuova città, in un nuovo quartiere. Siamo comunque a dieci minuti dalle loro scuole: hanno potuto mantenere i loro amici e ne sono stata contenta.

Ci siamo abituati presto, così come gli animali. Non c’è il giardino, ma al cane piace molto fare una bella passeggiata la sera e ai gatti piace guardare il vicinato dalle ringhiere dei terrazzi.

Nonostante abbia sempre pensato che il mio lavoro non fosse sufficiente, ci sta mantenendo tutti: mangiamo tre volte al giorno, non riesco ancora a capacitarmene.

Ho passato i primi due mesi nella paura che lui arrivasse, citofonasse impazzito, facesse scenate al nostro nuovo indirizzo, magari supplicandomi di dargli un’altra possibilità. Non è mai accaduto.

Continua ad arrabbiarsi se i ragazzi non lo chiamano, a turno, a pranzo e a cena; li vede una volta alla settimana a casa del nonno e… Basta. Questo è il suo livello massimo di sopportazione: pochissime richieste di fare qualcosa insieme a loro, quasi zero soldi, magari regalati per comprare un gelato.

Zero comunicazione con me.

La verità è che il suo silenzio mi è più congeniale, mi ci crogiolo, quasi. Sempre meglio degli insulti e dei rimproveri. Ho avuto la sua voce urlante nelle orecchie per settimane, dopo che siamo fuggiti da lui.

Ora non più.

Ora c’è solo tanta pace.

Sì, è stata dura, dover prendere coscienza che tutti i progetti, tutte le aspettative per il futuro erano stati cancellati con un colpo di spugna, dalla sua rabbia. Ancora, a volte, quando sono in macchina da sola, mi sento come se avessi fallito il mio obiettivo principale. Poi arrivano i ragazzi, le loro risate, i loro scherzi, le loro infinite iniziative, il loro modo di darsi da fare in questa nuova vita, le loro ali di nuovo spiegate per volare alto, senza confini, senza pesi a tenerli schiacciati a terra e allora mi ricordo del perché siamo qui, insieme, con i giorni bui e i giorni felici, ma mai disperati, mai marchiati da quella cattiveria che ci aveva annientati.

Oggi siamo liberi di essere tutto ciò che vorremo essere.  

Oggi, finalmente, il nostro futuro è fatto di pagine bianche, da riempire con tutte le cose meravigliose che la vita vorrà regalarci, perché abbiamo attraversato l’inferno e ne siamo usciti.  

Oggi, non abbiamo più paura.  

Oggi, andiamo insieme a scegliere una nuova cucina e già lo so: sarà bellissima e noi l’adoreremo.

 

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